a cura di ANTONELLA CHIONNA. "Stidda di Luci" (pubblicato da Silence records) è l’ultimo lavoro discografico di Francesco Negro, affermato pianista e compositore. Ne parliamo con lui.
D. Francesco, qual è il tuo background musicale?
R. Il mio background musicale è legato alle esperienze musicali ed extramusicali che ho vissuto. Per quanto riguarda gli studi, mi sono diplomato in pianoforte sotto la guida del M° Corrado De Bernart e poi ho intrapreso lo studio del repertorio contemporaneo grazie al maestro e amico Giancarlo Simonacci. Ho avuto inoltre la fortuna di frequentare, dal 2008 al 2010, l’International Jazz Master di Siena dove, per ben due anni, ho studiato e suonato con tanti musicisti. Tuttavia, per essere musicista non basta solo studiare, è anche importante trovare il modo per ricercare se stessi in solitudine e accanto alle persone che ti sono vicine.
D. Ti consideri principalmente un pianista o un compositore?
R. Mi considero principalmente un improvvisatore cioè: un musicista che cerca di rapportarsi continuamente all’ambiente circostante; in tal senso mi sento, dunque, un pianista - compositore perché organizzo i suoni nel momento in cui sono al pianoforte.
D. "Stidda di Luci" è il tuo ultimo album in studio, qual è il filo conduttore che caratterizza l’intero lavoro?
R. In realtà, non c’è un filo conduttore. Stidda di Luci è un’esplorazione nel mondo musicale del pianista e compositore Giancarlo Simonacci.
D. Rispetto al tuo precedente "Aspettando il tempo" (Silence records) hai concentrato l’attenzione sulla dimensione introspettiva dell’esecuzione musicale. Come e quanto è possibile trasferire, nel panorama musicale contemporaneo, quell’ideale di differenziazione minimalista che valorizza l’impronta del tuo ultimo lavoro discografico?
R. Grazie a questo lavoro sono riuscito a immedesimarmi nella realtà da un altro punto di vista. Un aspetto su cui lavoro da anni è rendere le idee essenziali e immediate: le intuizioni bisogna coltivarle, ripulirle e farle splendere togliendo ciò che non è necessario. Per realizzare questo disco ho dovuto lavorare molto su me stesso, ero solo con le composizioni di Giancarlo e il pianoforte; la percezione del suono e dell’assenza di suono è soggetta ad un cambiamento rispetto a quando s’interagisce con altri musicisti.
D. In "Stidda di Luci" interpreti, con tocco personale, le opere pianistiche di Giancarlo Simonacci. Come hai proceduto nella selezione del materiale e perché hai deciso di rendere omaggio al compositore romano?
R. Ho portato avanti una ricerca musicale studiando quasi tutti i suoi lavori pianistici dal 1983 a oggi e ho trovato molti spunti interessanti. Sicuramente, la mia predisposizione per l’improvvisazione mi ha dato la possibilità di giocare molto sulle composizioni. Non nascondo che in due giorni ho fatto 250 registrazioni, per cui selezionare il materiale è stato molto difficile perché alcuni brani li ho interpretati in maniere molto diverse tra loro.
D. Un album composto da quarantuno tracce “cometa” che affrontano le “Bagatelle”, scritte nel periodo 1985 -1996, “Cinque piccole offerte musicali”, di chiara evocazione bachiana, “Si maravigghia” – “Piccola pastorale” e “Stidda di Luci”, destinate alla terra di Sicilia e, un valzer in – completato, “Un Rien”. Quanto è importante, in musica, la mitologia archetipica legata al concetto di trasfigurazione del processo creativo?
R. Credo che la trasfigurazione sia alla base di qualsiasi processo creativo. Io mi sono limitato a interpretare queste composizioni, dando una mia chiave di lettura, anche se sarebbe più opportuno porgere la domanda a Giancarlo Simonacci.
D. Mi sembra che tu abbia particolare attenzione per l’impatto visuale dell’opera d’arte, intesa come sintesi visiva dell’iterazione dei significanti. Per Deleuze, la ripetizione contribuisce a consolidare la straordinarietà di ciò che si ripete; in altre parole, senza osare una nuova rotta restiamo legati a una stella maestra, catturati infinitamente dall’energia che essa ricorre. In tal senso, qual è la destinazione finale, se esiste, della rotta alla quale un musicista, attraverso la ripetizione, desidera ricongiungersi?
R. La reiterazione in musica è un modo che ti permette di vedere l’oggetto a 360 gradi; questo sistema contribuisce ad accumulare energia poiché l’idea da sviluppare la (ri) conosci ogni volta che la ripeti e, il musicista, in questi casi, ha una grande responsabilità nel dover gestire l’equilibrio dinamico. In musica, come nella vita, puoi solo immaginare il futuro. La destinazione finale è l’ignoto perché nessuno può prevedere ciò che accadrà.
D. Qual è il potenziale artistico o musicale che ritieni, la tua generazione possa mettere a frutto?
R. L’arte è una stanza dove ognuno ha la possibilità di esprimere se stesso e il proprio rapporto con il presente. Il potenziale artistico sta nel farsi delle domande opponendo resistenza a tutto ciò che impedisce l’accesso alla propria espressione.
D. Non posso fare a meno di notare la precocità e l’impatto dei contenuti che permeano la scelta delle tue rotte musicali. Qual è la chiave per rimanere fedeli a se stessi, nel secolo della musica globalizzata?
R. Affacciarsi alla finestra e vedere cosa succede nel mondo non basta. E’ molto importante anche trovare il tempo per riflettere su se stessi e ricercare il proprio suono. La musica, come la vita, è fatta di scelte e bisogna cercare di non lasciarsi risucchiare dal conformismo.
D. Quali sono i tuoi progetti futuri?
R. In questo periodo sto lavorando su un metodo pianistico che riprende ciò di cui parlavamo prima, la reiterazione. Ma, preferisco non spingermi oltre e lasciare un po’ di curiosità.
D. In che tonalità è la variazione che nascondi nel cassetto?
R. Io vivo nel totale cromatico.
D. Francesco, qual è il tuo background musicale?
R. Il mio background musicale è legato alle esperienze musicali ed extramusicali che ho vissuto. Per quanto riguarda gli studi, mi sono diplomato in pianoforte sotto la guida del M° Corrado De Bernart e poi ho intrapreso lo studio del repertorio contemporaneo grazie al maestro e amico Giancarlo Simonacci. Ho avuto inoltre la fortuna di frequentare, dal 2008 al 2010, l’International Jazz Master di Siena dove, per ben due anni, ho studiato e suonato con tanti musicisti. Tuttavia, per essere musicista non basta solo studiare, è anche importante trovare il modo per ricercare se stessi in solitudine e accanto alle persone che ti sono vicine.
D. Ti consideri principalmente un pianista o un compositore?
R. Mi considero principalmente un improvvisatore cioè: un musicista che cerca di rapportarsi continuamente all’ambiente circostante; in tal senso mi sento, dunque, un pianista - compositore perché organizzo i suoni nel momento in cui sono al pianoforte.
D. "Stidda di Luci" è il tuo ultimo album in studio, qual è il filo conduttore che caratterizza l’intero lavoro?
R. In realtà, non c’è un filo conduttore. Stidda di Luci è un’esplorazione nel mondo musicale del pianista e compositore Giancarlo Simonacci.
D. Rispetto al tuo precedente "Aspettando il tempo" (Silence records) hai concentrato l’attenzione sulla dimensione introspettiva dell’esecuzione musicale. Come e quanto è possibile trasferire, nel panorama musicale contemporaneo, quell’ideale di differenziazione minimalista che valorizza l’impronta del tuo ultimo lavoro discografico?
R. Grazie a questo lavoro sono riuscito a immedesimarmi nella realtà da un altro punto di vista. Un aspetto su cui lavoro da anni è rendere le idee essenziali e immediate: le intuizioni bisogna coltivarle, ripulirle e farle splendere togliendo ciò che non è necessario. Per realizzare questo disco ho dovuto lavorare molto su me stesso, ero solo con le composizioni di Giancarlo e il pianoforte; la percezione del suono e dell’assenza di suono è soggetta ad un cambiamento rispetto a quando s’interagisce con altri musicisti.
D. In "Stidda di Luci" interpreti, con tocco personale, le opere pianistiche di Giancarlo Simonacci. Come hai proceduto nella selezione del materiale e perché hai deciso di rendere omaggio al compositore romano?
R. Ho portato avanti una ricerca musicale studiando quasi tutti i suoi lavori pianistici dal 1983 a oggi e ho trovato molti spunti interessanti. Sicuramente, la mia predisposizione per l’improvvisazione mi ha dato la possibilità di giocare molto sulle composizioni. Non nascondo che in due giorni ho fatto 250 registrazioni, per cui selezionare il materiale è stato molto difficile perché alcuni brani li ho interpretati in maniere molto diverse tra loro.
D. Un album composto da quarantuno tracce “cometa” che affrontano le “Bagatelle”, scritte nel periodo 1985 -1996, “Cinque piccole offerte musicali”, di chiara evocazione bachiana, “Si maravigghia” – “Piccola pastorale” e “Stidda di Luci”, destinate alla terra di Sicilia e, un valzer in – completato, “Un Rien”. Quanto è importante, in musica, la mitologia archetipica legata al concetto di trasfigurazione del processo creativo?
R. Credo che la trasfigurazione sia alla base di qualsiasi processo creativo. Io mi sono limitato a interpretare queste composizioni, dando una mia chiave di lettura, anche se sarebbe più opportuno porgere la domanda a Giancarlo Simonacci.
D. Mi sembra che tu abbia particolare attenzione per l’impatto visuale dell’opera d’arte, intesa come sintesi visiva dell’iterazione dei significanti. Per Deleuze, la ripetizione contribuisce a consolidare la straordinarietà di ciò che si ripete; in altre parole, senza osare una nuova rotta restiamo legati a una stella maestra, catturati infinitamente dall’energia che essa ricorre. In tal senso, qual è la destinazione finale, se esiste, della rotta alla quale un musicista, attraverso la ripetizione, desidera ricongiungersi?
R. La reiterazione in musica è un modo che ti permette di vedere l’oggetto a 360 gradi; questo sistema contribuisce ad accumulare energia poiché l’idea da sviluppare la (ri) conosci ogni volta che la ripeti e, il musicista, in questi casi, ha una grande responsabilità nel dover gestire l’equilibrio dinamico. In musica, come nella vita, puoi solo immaginare il futuro. La destinazione finale è l’ignoto perché nessuno può prevedere ciò che accadrà.
D. Qual è il potenziale artistico o musicale che ritieni, la tua generazione possa mettere a frutto?
R. L’arte è una stanza dove ognuno ha la possibilità di esprimere se stesso e il proprio rapporto con il presente. Il potenziale artistico sta nel farsi delle domande opponendo resistenza a tutto ciò che impedisce l’accesso alla propria espressione.
D. Non posso fare a meno di notare la precocità e l’impatto dei contenuti che permeano la scelta delle tue rotte musicali. Qual è la chiave per rimanere fedeli a se stessi, nel secolo della musica globalizzata?
R. Affacciarsi alla finestra e vedere cosa succede nel mondo non basta. E’ molto importante anche trovare il tempo per riflettere su se stessi e ricercare il proprio suono. La musica, come la vita, è fatta di scelte e bisogna cercare di non lasciarsi risucchiare dal conformismo.
D. Quali sono i tuoi progetti futuri?
R. In questo periodo sto lavorando su un metodo pianistico che riprende ciò di cui parlavamo prima, la reiterazione. Ma, preferisco non spingermi oltre e lasciare un po’ di curiosità.
D. In che tonalità è la variazione che nascondi nel cassetto?
R. Io vivo nel totale cromatico.
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